Lucrezio la peste e Michel Serres

Come in tutte le epidemie raccontate da Tucidide a Lucrezio, da De Foe a Manzoni, a Poe, è la società a disgregarsi più o meno velocemente. È il vincolo sociale che viene meno e collassa, forse prima ancora dei corpi. I provvedimenti relativi alle vaccinazioni forzate e gli sconvolgimenti sociali dovuti alla perdita del lavoro, là dove sta avvenendo, alla negazione di alcuni privilegi sociali, là dove ci sono, all’isolamento dei non vaccinati, è il vero prodotto sociale della pandemia così come la letteratura classica e moderna e la riflessione l’ha sempre descritta.

Sono fratture che si ricompongono, se si ricompongono, grazie al meccanismo del capro espiatorio che istituisce il nuovo foedus. Solo in questo modo si può interrompere la guerra di tutti contro tutti. Secondo Michel Serres, in quell’aureo libretto che fu Lucrezio e l’origine della fisica, ormai dimenticato da tutti, il nuovo contratto sociale che sostituirebbe il vecchio frantumato dalla pandemia, sarà accessibile solo tramite il sacrificio, più o meno mascherato, di uno stock di popolazione alla quale viene fatto correre un rischio calcolato sull’astratto beneficio della società nel suo complesso e comprimendo lo spazio di calcolo che fa capo alla persona, ritenuto ormai irrilevante.

Serres continua con parole oggi inaudibili, perché il nuovo foedus è una specie di astuzia della ragione, che consente di dare uno statuto di necessità naturale all’arbitrarietà del potere, al nudo dominio:

Tutti i poteri cercano una legittimità, perché essendo di per sé abusivi, ne sono sempre privi. Fondare un dominio sulla scienza è ugualmente una strategia comune e in più molto facile, poiché le scienze stesse, generalmente, si fondano sul dominio» (Michel Serres, Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, Palermo 1980 p. 128).

Nel caso presente può anche darsi che sia un dominio che si esercita forse solo per un periodo limitato di tempo… ma chi può dirlo oggi? Chi può affermarlo e in base a cosa potremmo ancora ragionevolmente sperare che ci sia un tempo in cui questo meccanismo smetta di funzionare? Oggi ci viene detto che non si può neppure formulare la questione del legame tra scienza e potere, tra scienza e dominio, fusi insieme da un complesso di legami economici totalmente inedito nella storia umana, impossibilitati a sbrogliarlo perché quasi ci mancano le parole stesse per indicarlo. Ripristinata la lotta di tutti contro tutti l’esercizio del potere ha bisogno di un’unanimità sulla quale far camminare le sue chance di dominio. E le unanimità si costituiscono, per quanto sempre precarie e provvisorie, sempre contro qualcuno.

Simone e Jean-Paul secondo Sandra Teroni

“Avvenire” di oggi ospita la mia recensione di un’interessante biografia di Simone de Beauvoir [Simone de Beauvoir. Percorsi di vita e di scrittura (Donzelli, pagine VI+178, euro 18,00) di Sandra Teroni]. Molto ben scritta e partecipe, si avvale di una competenza di rilievo. Conserva, però, tutto ciò che di problematico la coppia Sartre-de Beauvoir ha consegnato ai posteri.

Rileggendo Jean-Pierre Dupuy

Solo per quanto riguarda alcune osservazioni del suo Per un catastrofismo illuminato [tradotto nel 2011 e tra qualche settimana in ristampa, da Edizioni Medusa, a cura di Paolo Heritier; la prima edizione francese è del 2002].

Si tratta del problema del “calcolo del rischio” e della sua accettazione, nonché della sua critica all’obiettivo del “rischio zero”. Sorpassando il dettaglio tecnico delle diverse dottrine che hanno costruito il pensiero strategico, e tattico, sulla questione, dai campi di guerra, alla guerra fredda, al gioco d’azzardo ecc., mi riferirò solo alla sua impostazione del problema.

Dupuy è convinto che nella formulazione delle dottrine relative alla scelta razionale, da cui in definitiva dipendono le dottrine circa il calcolo del rischio, venga assunto il punto di vista di un soggetto astratto dal mondo della vita comune nella quale viene a trovarsi comunque per un periodo più o meno lungo della sua giornata, e altrettanto avulso dall’universalità che consegue da questa posizione. Universalità del suo essere uomo, essenzialmente, essere parlante, dotato di capacità discorsive.

Un’etica del rischio degna di questo nome non può avvalersi di dottrine basate esclusivamente sulle inclinazioni degli agenti stessi che la impongono. Questo vale sia per il giocatore di azzardo sia per lo scommettitore di borsa sia per il ricercatore medico. L’inclinazione, infatti, oltre alle sue caratteristiche psicologiche, comporterebbe pesanti limitazioni per ciò che concerne la razionalità specifica del discorso etico che è quella di potersi generalizzare ben oltre le propensioni idiosincratiche dell’agente. Esempio: uno scommettitore di borsa non potrà mai ammettere che nella sua ricerca del massimo rendimento a vantaggio del suo investimento debba rispondere a imperativi etici che non dipendano dall’obiettivo di realizzare il massimo rendimento. Come uomo potrà certamente essere più o meno sensibile alle istanze che provengono dalla società nella quale si trova ad essere consumatore, padre, cittadino ecc., ma nella sua “professione” di scommettitore-investitore non potrà tenerne conto e neppure lo vorrà. Lo stesso dicasi, in modi che qui si intendono facilmente intuibili dal lettore, per lo stratega militare, per il ricercatore scientifico, magari impiegato alla progettazione di farmaci utili sì alla cura ma, ancor di più, utili al bilancio dell’azienda da cui viene pagato. Questa è la situazione “reale” nella quale verso l’uomo moderno, descritta da Max Weber e declinata in mille altri modi dalle scienze umane.

L’altro elemento dal quale il soggetto della scelta razionale risulta astratto è la dimensione pubblica delle sue azioni. Questione ampiamente dibattuta. Segreto industriale, segreti tattico-strategici derivanti dalla situazione geo-politica, difficoltà intrinseche ai linguaggi specialistici ecc. rendono difficile l’accesso al complesso di pratiche e azioni, scelte e rischi, appunto, che si sviluppano e trovano realizzazione in prodotti piuttosto che in azioni e scelte gli effetti delle quali cadranno su terzi che non solo non hanno partecipato alla loro produzione ma neppure hanno potuto sapere “cosa bolliva in pentola”. Ma la sfera pubblica è l’elemento nella quale nasce, cresce e si estende la democrazia, almeno nella sua fase iniziale, oggi travolta dalla sua riduzione a mera procedura.

Il soggetto astratto sul quale fanno perno le dottrine della razionalità della scelta è avulso dall’oggettività alla quale le sue azioni devono confrontarsi. Nel caso del ricercatore farmaceutico, si tratta di un lavoro che assume obiettivi che funzionano in una condizione di relativa incertezza, nella quale è in atto una revoca, seppure parziale, dell’oggettività scientifica. Pensiamo solo ai farmaci tolti dal commercio per la somma di reazioni avverse provocate. Piuttosto che ai mille vicoli ciechi nei quali si sono infilate decine di sperimentazioni farmacologiche e che mantengono l’incurabilità di molte patologie. In questo caso il lavoro del ricercatore si è assunto il cosiddetto “rischio di sviluppo”, vale a dire il rischio che un prodotto sia affetto:

da un difetto non scopribile e imprevedibile la cui conoscenza non si manifesterà che con un certo ritardo, e la cui imputazione al prodotto o al produttore non potrà farsi che in un altro stato della scienza che quello in seno al quale il prodotto è stato messo in circolazione, utilizzato e consumato.

Ebbene, questo grumo problematico, sul quale grava l’enormità della discussione e il suo articolato svolgimento, disperso in mille rivoli e subordinate, è scomparso, cancellato e finanche negato dall’attuale dibattito sulle necessità derivanti dalla lotta alla pandemia, sintetizzabile nell’obbligo vaccinale… ché tale si tratta.

La cosa paradossale sta nel fatto che i contendenti, lasciati colpevolmente soli nella discussione, si accapigliano in base a una medesima logica e a un medesimo obiettivo: il raggiungimento del “rischio zero”. Sintetizzabile in questo modo:

  • Non si può proibire il vaccino per paura di non raggiungere il rischio zero data la condizione di “rischio di sviluppo” nella quale si trova la sua produzione. Il vaccino è rischioso per un certo numero di persone e di profili sanitari. Il numero di questi profili non è fisso e, ragionevolmente, un individuo può ipotizzare di farne parte, per storia sanitaria, per un suo calcolo ecc. Ma la presenza di questo rischio non può impedirne lo sviluppo.
  • Ma la necessità di svilupparlo nasce dall’obiettivo di raggiungere il rischio zero circa la diffusione dei contagi. Necessità che si avvale di un calcolo generale che stima il danno in termini di vite umane dovuto all’estendersi dell’infezione confrontato al danno che deriva dall’aver accettato il “rischio di sviluppo”.

Lo spazio della discussione è tutto interno ai due punti estremi, accomunati dall’unico obiettivo, raggiungere il “rischio zero”, e da una medesima logica: sacrificare il resto.

Le conseguenze del sacrificio e dell’assunzione di una medesima logica da parte delle due posizioni invalida potentemente la dimensione razionale e universalistica del discorso etico che dovrebbe riguardare le decisioni che conseguono dalla loro assunzione:

  • Non sarebbe razionale opporsi al vaccino in generale per raggiungere il rischio zero relativo alla possibilità di suoi effetti mortali o reazioni avverse più o meno diffuse. Ci saranno sempre reazioni avverse e possibili effetti mortali.
  • Non sarebbe razionale opporsi al principio di precauzione agitato da chi non vuole vaccinarsi per realizzare il rischio zero quanto ai contagi. Ci saranno sempre contagi e diffusione del virus, per effetto della sua natura.

Siamo caduti, almeno apparentemente, in una dimensione di indecidibilità. A suo modo tragica, nella quale riappare la figura del destino, non più agganciata all’azione divina bensì alla protesi umana rappresentata dalla tecnologia. Dovrebbe essere ridisegnata tutta la distribuzione dei ruoli di responsabilità sulla base della diversa distribuzione del rapporto sapere-potere.

La mia posizione è che, fino a quando vogliamo rimanere all’interno di ciò che ci ostiniamo a considerare razionalismo occidentale il sacrificio che consegue al riemergere di questa figura del destino, secondo la quale il “rischio zero” deve essere in qualche modo affrontato ma non risolto con il suo annullamento, impossibile, deve essere mitigato.

Questa mitigazione deve lasciare spazio a una diversa articolazione tra “interesse generale”, con il suo calcolo dello stock di popolazione sacrificabile, e “interesse del singolo” a calcolare la propria partecipazione al sacrificio. In una condizione di incertezza e di controversia scientifica non può essere imposta la partecipazione obbligatoria al sacrificio, e questo indipendentemente dalla percentuale calcolabile in termini statistici del rischio assumibile. Sono troppe le interferenze che gravano sulla decisione: gli interessi dei produttori; gli interessi geo-strategici che inducono i diversi sistemi politici ad agire in un modo piuttosto che un altro; gli interessi economici globali, che perseguono sempre e comunque diversi equilibri di mercato per consolidare la propria posizione concorrenziale.

In questo senso la posizione personale, in qualche modo refrattaria, per quanto possa apparire un retaggio egoistico in via di superamento, dovrebbe indurre a riflettere su quanto resta della logica sacrificale che ancora anima il funzionamento del mondo e, soprattutto, del prezzo inaccettabile che essa comporta per una parte dell’umanità. E questo nella consapevolezza che, comunque vada, ci si potrà sempre trovare da una parte o dall’altra del problema: o sacrificatori o sacrificati, a seconda delle combinazioni raggiunti dall’equilibrio precario generato delle forze in gioco. Le figure del tragico ancora aleggiano sui destini del mondo che si volevano quasi del tutto sotto il controllo della razionalità universale.

Andare e venire della gente da poco

Ecco, questo è un testo che raggiunge il nocciolo duro di ciò che oggi ritengo per più versi insostenibile. Ma qui non posso rileggere e spiegare perché. Eppure vi si legge (siamo nel 1986) anche una certa forma di preveggenza che indica una verità da cui è difficile sfuggire: “Comment a-t-on appris à lutter contre la peste? Non seulement par l’isolement des pestiférés, mais par le quadrillage strict de l’espace malheureux, par l’invention d’une technologie de mise en ordre dont plus tard bénéficiera l’administration des villes, enfin par des enquêtes minutieuses qui, la peste disparue, serviront à empêcher le vagabondage (le droit d’aller et de venir des “gens de peu”), jusqu’à interdire le droit de disparaître qui nous est refusé aujourd’hui encore sous une forme ou sous une autre”. Nella società disciplinata che si va a costituire, nuovamente e in un senso leggermente ma significativamente diverso da quello che immaginavano Blanchot e Foucault, gli uomini che siamo diventeranno intercambiabili poiché ciascuno si definirà per il posto che occupa nella serie e per lo scarto che lo separerà dall’altro e per null’altro.

Bruno Roy e la Fata Morgana

Il 15 settembre è morto Bruno Roy, fondatore di “Fata Morgana”, casa editrice francese che ha accompagnato da sempre i miei studi e le mie letture francesi. Preferivo che un Derrida, che so un Foucault, un Lévinas, venisse pubblicato da “Fata Morgana” piuttosto che da altri. Non so perché ma la consideravo il luogo nel quale il significato di un libro, di una poesia, di un commento critico aveva più spazio per manifestarsi in pienezza e senza implicazioni diverse dal proprio darsi alla lettura, insomma, senza condizionamenti ideologici diversi da quelli che, eventualmente, il lettore poteva cogliere con la sua libera lettura. L’attività editoriale di Bruno Roy è stata libera come solo i francesi sanno fare.